Diversità è valore.
L’unicità di ogni persona corrisponde al suo talento e il percorso di tutta la vita è proprio riconoscerla ed esprimerla, dare valore a ciò che siamo.
Nel team o nell’organizzazione, la presenza di figure complementari permette di contare su maggiori risorse: competenze, qualità, esperienze, punti di vista che generano soluzioni e possibilità, stimolano creatività e innovazione, ci fanno crescere come persone e nei risultati.
Eppure tendiamo a nascondere la diversità, cerchiamo di uniformarla o la viviamo come contrapposizione. Perché chiede tempo e disponibilità all’altro, spesso ci fa sentire inadeguati, fino a provare vergogna di noi stessi. Mette in discussione le nostre sicurezze e solletica il naturale bisogno di affermazione, fino a trascinarci nel conflitto.
Fino a quando non viene riconosciuta come valore, la diversità rimane un tesoro nascosto.
O peggio, un peso.
Quando il valore che non riconosciamo è il nostro, la diversità diventa un macigno.
Può succedere veramente a tutti, ad ogni età, ai timidi e agli spavaldi.
Nella società della performance, basta poco per sentirci in dubbio su noi stessi. Un momento di stanchezza, una difficoltà, un insuccesso …
La cultura è come il vento: invisibile, eppure capace di orientare la vela in una precisa direzione. Per questo le minoranze sono più esposte al rischio di non riconoscere il proprio valore, tenuto in disparte, fuori dalle logiche mainstream.
E le donne sono una tra queste.
Le motivazioni sono facilmente intuibili, anche se non è scontato esserne consapevoli… consuetudini e abitudini, convinzioni e regole sociali sono proprio come il vento, potenti e impalpabili.
Le donne portano dentro una storia di marginalità lunga secoli.
Anche se molte cose sono cambiate, almeno in una parte del mondo, nella memoria collettiva ci sono innumerevoli libertà negate e molte valide ragioni per nascondersi.
Tra le tante storie di marginalità, c’è la storia di Lidia Poët, che nel 1881 si vede rifiutare l’iscrizione all’albo degli avvocati, per riuscire a conquistarla ben 40 anni più tardi. E ci sono le storie del 31,5% delle donne italiane, che nel corso della propria vita hanno subito violenza fisica o sessuale (dati Istat).
Anche quando non ci riguardano personalmente, queste storie sono parte di noi e condizionano la nostra percezione della realtà: ciò che riteniamo normale o impossibile, giusto, efficace, auspicabile…. oppure no.
L’altra grande questione è il modello di leadership.
Il punto di riferimento è il leader che guida sé stesso e gli altri in modo eroico e solitario, decisionista, tendenzialmente infallibile e impermeabile alle emozioni. Un modello dai connotati maschili tradizionali, semplicemente perché fino a poco tempo fa gli uomini hanno ricoperto la quasi totalità delle posizioni di leadership.
Solo da qualche decennio le donne ricoprono in modo diffuso questi ruoli, sia nel contesto sociale che nel mondo del lavoro, dell’arte, della ricerca. Prima come mosche bianche, ora un pò di più. Rimangono minoranza, in alcuni ambiti una rarità, le donne nelle posizioni apicali.
Questa cultura così radicata, come il vento orienta le donne a dimostrare di essere adeguate al modello di riferimento, e quindi riconosciute, o a lottare contro il modello, per affermare un’alternativa e sé stesse.
Tutto questo succede anche in modo inconsapevole, il vento non si vede e non si tocca … si può sentire. In ogni caso, il risultato è una grande dispersione di risorse, impegnate nello sforzo dell’adeguamento o della lotta invece che nella proposta della differenza come valore e come contributo. Un percorso che si traduce in esperienze di grande fatica, frustrazione e spesso di sofferenza.
Abbiamo bisogno di storie e modelli diversi per sentire che donne e uomini sono pari e differenti, non uguali.
Per imparare che femminile e maschile non corrispondono a categorie biologiche, sono energie che abitano tutte le persone e ognuno può esprimerle.
Mettere in campo una leadership diversa, aperta e inclusiva, attenta alla dimensione umana, più femminile insomma (!), non riguarda solo le donne, è un valore per la società e per le organizzazioni, prezioso da integrare, anche per gli uomini. Le teorie di riferimento, i dati di ricerca e l’esperienza diretta di chi lo ha già fatto, raccontano in modo chiaro che l’approccio femminile è una leva cruciale per creare ambienti favorevoli al cambiamento e all’innovazione.
Ascolto, gentilezza, condivisione, intuizione … sono alcune qualità morbide del femminile, abilità di leadership preziose nel privato e altrettanto nello spazio professionale. Sono competenze fondamentali per migliorare le dinamiche relazionali e l’inclusione, quindi la creatività e la ricerca di soluzioni, per stimolare l’espressione del talento e quindi i risultati e la soddisfazione, per favorire il benessere delle persone e la realizzazione, a partire da sé.
Per esprimere questa leadership femminile è importante essere consapevoli del suo valore, conoscere gli impatti positivi che produce e avere a disposizione strumenti per proporla con autenticità e autorevolezza.
E’ uno stile che può mettere in circolo uno straordinario potenziale ancora inespresso e chiede di maneggiare con competenza la dimensione umana, relazioni e emozioni, fiducia e conflitto.
Cose che difficilmente stanno nel percorso di studi e di aggiornamento dei leader, come fosse facile impararle dall’esperienza, senza avere veri punti di riferimento e occasioni per sperimentarle in modo protetto prima di agirle nel quotidiano.
Se riusciamo a guardare la diversità come valore e non come difetto, possiamo conoscerla con entusiasmo e proporla come contributo al sistema di cui facciamo parte, che sia il contesto sociale, la nostra organizzazione o il team.
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- Essere consapevole delle sfide e degli impatti positivi che produce
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… quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso.
Marianne Williamson